martedì 1 giugno 2004

Gianluca Sbrana "dipinti e macchine"


‘Sbarca in laguna…’! È il puntuale anagramma del nome di Gianluca Sbrana che giunge dalla Carrara dei bianchi marmi alla placida ebete ex Serenissima, scivola sullo specchio d’acqua paludosa della laguna, surfando con i piedi inforcati sulla sua tavolozza impastata dei colori tra i più acidi e cangianti. Un magma di tinte luminescenti, antitonali, fiondati senza mirare direttamente nell’iride che strabica l’occhio. Con i piedi ben piantati sulla tavolozza e la testa lassù chissàdove, tra le stelle del firmamento, il magma vulcanico dei colori s’impasta fino a mutar in quelle palline di gomma multicolore che impazzite rimbalzano all’interno della scatola cranica persa tra gl’aliti nuvolosi del crepuscolo. Immersa in quella luce al tramonto che sogna la luna da marte dì venerdì, fa passare le sue creature nella cruna d’un ago e fissate come una follia ripassata con cura certosina dalle spatole della lucidatrice si stagliano definite et definitive sulla superficie della tela. Nel suo “frigidare” conserva al fresco lezioni di “Cannibale” con tutto il “Il Male” tra il diabolico bene et religiose extasy. Con una mano impasta con Pazienza Mattioli e Scozzari, è Liberatore di Tamburini filtrato da Giacon e mescola il metodo “paranoico-critico” daliniano, suscettibile di sensibilità alla Bosh ma immerso nei paesaggi sublimi di Turner nella tonalità atmosferico-paesaggista giorgionesca. Mentre con l’altra mano smanetta il joipad in consolle, muove dinamismi da ultimo schema di video giochi surreali infantili, che di parvolo bambino mantengono solo la totale amoralità. Con una pittura manierata dal fare continuo, sviscera dalla cassa toracica della propria testa figure di ossessioni private che psichedeliche contorcono fantasmi del passato e mostre future. Come novello pinocchio che tra grilli muti e aniMalimorfici, si affascina di fronte a fatine morte con il colore cianotico della decomposizione della carne per farne un carnevale. Con una pennellata coriandolare si perde in cieli infestati da stellefilanti multicolore, che s’illuminano di luce propria al festival di carni in maschera al carnevale di Vaneggio. Dalle figure ricorrenti di pupazzi senza collo con la testa sospesa senza fili dalle nubi, alle fiammelle della resurrezzione della pittura inventa, mantenedo gli stessi ingredienti teletrasportati dal proprio personale pianeta, architetture inutili et installazioni ambientali.
Immerge nel buio cieco dell’oblio macchine e sculture imbevute nella tavolozza del cranio dove mischia acrilici fluorescenti e colori luminescenti inchiostrati nella mielina. Dipinge la tridimensionalità con sequenze cromatiche astratte, ripetute maniacalmente nell’ossessione della ripetizione, che viene illuminata dalla lampada di Wood (dal cognome del suo ideatore, il fisico statunitense Robert William Wood). Le lampade di Wood a vapori di mercurio, han la proprietà di filtrare la luce lasciando passare soltanto i raggi ultravioletti; la sua irradiazione è praticamente invisibile. Utilizzata nelle discoteche esalta: i fosfori lasciati dai detersivi nei tessuti, quello dello smalto dei denti, e così la forfora, che irradiata d’una straordinaria luminescenza giace sulle spalle a mo’ di splendido souvenir appena capovolto sceso dai capelli innevati. Ennesimo momento spettracolare, da affrontare con lo stesso ghigno sardonico della morte, con cui le creature dei quadri sono abituati a guardare il fruitore. Lo stesso ghigno dipinto in faccia al cadavere che muore dal ridere nell’attimo di still life al game over, animato in ‘cartone’ dalla luce nera e trattato con artifizio da diligenti pennellate svisate tra il pelo di cinghiale e la coda del mouse.
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